Si fa un gran parlare della distanza che può esserci tra il valore di un’opera d’arte e il valore della persona che l’ha portata in manifestazione, l’artista.
L’opera non é dell’artista, l’artista riesce a ricevere e a portare in essere delle cose che ascolta, avverte, intuisce, l’opera non é colui che l’ha portata ad essere, sembra banale ma forse va detto.
Un’antenna, se riceve bene, e trasmette bene, non é detto sia bella, non é detto che agli altri piaccia, non é detto si inserisca bene nello spazio in cui é, da un punto di vista estetico culturale, antropologico e più in generale, “d’ingombro”.
La cultura da secoli, e anche molto prima che diventasse industria culturale, ha sempre messo su un piedistallo colui/lei che crea, ma chi crea sa che ascoltare e produrre é più vicino al concetto d’inganno che di ‘creazione’ nel suo senso più alto, generativo.
Fare un’opera d’arte é diverso che generarla.
Da qui il gran parlare della differenza tra il fare e l’essere dell’artista.
Diversamente dal generare, l’artista spesso semplicemente avverte il diviso, il separato e lo manifesta trovando grande consenso; messo in luce ad occhi forati ma occlusi.
Questa chiamata all’emancipazione dell’artista come persona, ha a che vedere secondo me, con un cambio radicale dell’estetica dell’arte, un cambio radicale che a parole é avvenuto nello scorso secolo ma nei fatti e nelle richieste non é avvenuto ancora.
La maggioranza vince sempre.
Il condizionamento derivato dall’esigenza di essere apprezzata/o, certe volte l’estremo bisogno di essere ‘amati’ condiziona in modo massivo molti artisti, in diversissimi campi.
Condiziona in modo massimale ogni persona, ma é più facile parlare degli artisti, sono lì, loro, e se ne parli non possono essere che contenti!